E’ dalla nascita del sistema elettorale bipolare che gli elettori italiani sentono annunciare l’imminente nascita di un centro moderato alternativo alla sinistra. Ed è praticamente da allora che gli stessi elettori lo fanno abortire. La storia recente, inoltre, ci insegna che in più di un’occasione l’ardito ideatore di tale progetto ha fatto la fine dell’apprendista stregone.
Basta un piccolo sforzo di memoria: nel ’94 Bossi decide di staccare la spina all’agonizzante governo di centrodestra evocando la prospettiva di un polo moderato. Il risultato è la sostituzione di Berlusconi con Dini. Proprio Dini, due anni dopo, ritaglia per sé il ruolo di centro del centro. Uno sforzo che però non è sufficiente agli occhi dei nuovi alleati. Alla sinistra non basta che l’ex-ministro del Tesoro del Polo abbia accettato di diventare presidente del Consiglio con l’obliqua malleveria di Oscar Luigi Scalfaro e con la fiducia degli sconfitti alle elezioni di marzo. Certo, gli è grata perché in nome del centro ha ulteriormente diviso il fronte moderato ma la guida della coalizione che risulterà vincente alle elezioni del ’96 non può essere sua ma di Romano Prodi. Due anni dopo anche il governo guidato dall’ex-presidente dell’Iri muore. Ma il centrodestra si conferma generoso. Arriva il secondo ribaltone. Questa volta è Mastella a passare armi e bagagli dall’altra parte in nome di un centro alternativo alla sinistra. Prodi se ne va, D’Alema arriva.
Morale: ogni volta che nel fronte moderato qualcuno tira fuori dal cilindro la storia del centro alternativo, la sinistra ex, post o neocomunista fa un passo in avanti. A Berlusconi succede il liberale Dini ed il Pds passa dall’opposizione alla maggioranza. Arriva il dossettiano Prodi e la Quercia fa il pieno di ministri. Avanzano le truppe mastellate e per la prima volta un postcomunista varca da premier il portone di Palazzo Chigi. Il centro sarà pure alternativo, ma gli eredi di Togliatti ringraziano. E soprattutto incassano.
Alla luce di queste sommarie ma non arbitrarie rievocazioni, risulta francamente incomprensibile l’atteggiamento dell’Udc. Cesa e Casini hanno prima controprogrammato la manifestazione anti-Prodi a Palermo, poi hanno decretato la fine della Casa delle Libertà. Non hanno però indicato una strada alternativa se non sia quella già nota come “taglio delle ali”, cioè un’alleanza senza la Lega Nord, che non brilla certo per originalità e in ogni caso è respinta in partenza e in blocco dall’elettorato moderato, ivi compreso quello centrista. Del resto, la pretesa di distillare in laboratorio una nuova opposizione che tenga fuori qualcuno di là e qualcun altro di qua è pura alchimia. E’ nostalgia di uno schema da Prima Repubblica, allora vitale e funzionale perché attuale, cioè calibrato sulle esigenze di una democrazia bloccata dalla ferrea logica di Yalta, ma ora improponibile.
Oggi sono i cittadini a scegliere i governanti. Lo fanno liberamente senza genuflettersi di fronte a conventio ad excludendum e senza passare sotto fatiscentissimi archi costituzionali. Il fatto che nel corso di questi anni l’alternanza tra schieramenti abbia consentito a tutti i partiti di governare rappresenta un elemento di forza e non di debolezza della nostra democrazia. Il fatto che nonostante questo risultato il bipolarismo mostri tratti ancora immaturi, per non dire primitivi, non ci autorizza ad azzerarlo ma, semmai, a lavorare per migliorarlo. La pretesa di espellere Berlusconi dall’arena politica per dare vita a coalizioni programmaticamente più coese e coerenti è fuorviante ancorchè impraticabile. In primo luogo perché la politica si fa con materiale umano, non con le pietre. Se è vero, come è vero, che i partiti sono accumulatori di storie, identità, simboli, passioni è altrettanto vero che queste storie, queste identità, questi simboli e queste passioni esistono e vengono percepiti come tali grazie agli uomini che li rappresentano e che li incarnano. In secondo luogo perché non c’è la prova contraria: nessuno può garantire che una volta espulso Berlusconi il centro si ricongiungerà al centro, la sinistra riformista prevarrà su quella antagonista, mentre la destra democratica non potrà aspirare ad altro ruolo che non sia quello di rafforzamento del centro. Non esiste insomma un’autorità superiore e trascendente in grado di stabilire il copione da assegnare a ciascun partito. La politica preesiste all’organizzazione e puntare sulla legge elettorale per aggregare il centro è un’impresa vana. Ci sarà pure infatti un motivo se la mercanzìa del centro alternativo si trova sempre sulle bancarelle dei cattolici moderati e mai su quelle dei cattolici progressisti. Esisterà pure una ragione se a parlare di tale prospettiva non è mai una Rosy Bindi ma è sempre un Bruno Tabacci.
In realtà i cattolici progressisti non sentono l’esigenza di ricongiungersi a quelli moderati perché la sinistra garantisce loro la continuità culturale con la costituzione materiale della Prima Repubblica, specie nella sua fase terminale. C’è un patto di sindacato che ruota intorno a due-tre punti fermi: sostanziale intangibilità della Carta Costituzionale (la sciagurata riforma del Titolo V fu varata contro la Lega); accettazione della subalternità della politica ad altri poteri, in primo luogo a quello giudiziario; antiamericanismo possibile in politica internazionale.
Nel centrodestra la situazione è ben diversa. Qui si sono ritrovati e per certi versi aggrovigliati i filoni culturali e politici banditi o soccombenti nella Prima Repubblica: da quello nazionale a quello cattolico-liberale, da quello federalista a quello del socialismo liberale e autonomista. Non è un caso se i fatti politicamente rilevanti siano accaduti proprio in questa metà campo della politica: la nascita di un partito liberal-populista come Forza Italia, lo “sdoganamento” (espressione orrenda ma rende l’idea) della destra, la costituzionalizzazione della Lega, il Termidoro post-tangentopoli che ha restituito dignità politica all’esperienza democristiana.
L’Udc vuole azzerare tutto questo? Vuol fare tabula rasa di quel che seppur confusamente, a volte inconsapevolmente, forse contraddittoriamente, è stato fin qui costruito? Davvero Casini ha in animo di gettare alle ortiche un’opera non da poco che ha contribuito in misura decisiva a realizzare per inseguire l’utopia di un centro che non abita più presso l’elettorato? Certo, a nessuno dotato di un minimo di senso comune può venire in mente di dire che il centrodestra scoppia di salute. Non è solo l’Udc a volere qualcosa di diverso. Marco Follini ha lasciato quel partito proprio per questo. Aggiungiamo che un’altra opposizione è non solo possibile ma addirittura auspicabile. Ma va realizzata portando a profitto e non demolendo il lavoro svolto, cioè accelerando sulla strada del soggetto unitario del centrodestra e non scommettendo sulla sua dissoluzione, “costringendo” Berlusconi a pensare oltre se stesso e cioè a gettare le basi di una lungimirante alternativa culturale in grado di sviluppare pensiero, teoria, dottrina e non liquidandone la leadership alla stregua di un arnese logoro ed ingombrante. Immaginare un’opposizione complessivamente più attrezzata è non solo un diritto ma persino un dovere per chi la rappresenta. Passare dalla politica dei propri mezzi alla consapevolezza che è necessario dotarsi dei mezzi per la propria politica è già una piccola, grande rivoluzione. Per farla occorre lo sforzo di tutti.
Mario Landolfi